9
marzo
2002
Piero
Dal Bon
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I
Poi:
molto poi, molto dopo, vide un'ombra svanire tra le calli, con
un cappello appuntito. Ebbe il tempo di vedere la pipa. Lo riconobbe.
"Esso" disse. "Esso". Rimase in piedi. Poi
rise. Ridendo esse, rise risse accanite. Attorno era tutto uno
scalpitio. Il lampione rimaneva intatto. La luna ghiacciata
questa volta non balbettò. Dio se ne era andato da molto
tempo. Il diavolo? Il diavolo anche.
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II
C'era
stato un momento in cui le parole mi erano mancate. Ammutolii.
Le parole erano volate via. Ed io impietrii. Mi distesi sotto
un albero. E i ciclisti passavano e passavano. Chiusi gli occhi.
Vedevo tante luci impazzite. Impazzite. Luci di tanti colori.
E poi un punto di domanda, alto sull'orizzonte. Un punto di
domanda che si alzava e si allargava. Toccava la luna. E la
luna andava in pezzi. Pezzi che cadevano. Ne raccolsi uno e
lo mangiai. Mi tagliò la lingua. Inghiottii. Salutai
il ciclista dalla tuta rossa, che si era fermato a chiedermi
se avevo bisogno di qualcosa. Gli risposi che no, ma la parola
mi rimase dentro, in fondo allo stomaco. Lo stomaco era trasparente.
Di candido vetro. Guardai passarci dentro i piragna dai denti
aguzzi. L'albero si piegò. Un vento freddo colpì
nel segno. Il bersaglio della mia vendetta era lontano.. Mi
alzai. Faceva freddo e nevicava. Non so quanto camminai. So
solo che non sentii né vidi niente. Solo un ronzìo
insistente occupava la mia mente bianca. Bianca la mente, come
le foglie del futuro.
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III
M.
mi aveva toccato. Io ero scappato sopra un albero. Mi ero nascosto
tra le foglie. C'era il cigolìo dell'altalena e lo strazio
della gioia degli altri bambini che gridavano. M. non c'era
più. Era rimasto solo il vuoto del suo odore. Guardai
in alto. Ma il cielo era troppo lontano da me. In basso gli
altri bambini che gridavano. Bambini. Io non lo ero più.
Lo avevo capito con la fronte, toccando la ruga di un ramo.
Una ruga che era diventata mia. Mia. Schiacciai con un dito
la cocinella che mi era salita sulla fronte. La misi sulla lingua
e corsi giù dall'albero, urlando. Non guardai niente.
Se non la punta della lingua. Corsi fuori dal parco. Discesi
a precipizio una calletta. Non vidi niente. Niente che meritasse
la pena della mia cocinella. Ritrovai il mio cantuccio, sotto
il portico. Affondai la mia testa nel cuscino, bagnato dalla
pipì del cane.
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IV
S'inchino
con il suo spolverino e il papillon rosso a pois quello che
aveva messo a Stoccolma quando il Re svedese gli aveva consegnato
il Nobel, si piegò e scoccò quel suo servizio
geometrico, dopo aver sogguardato l'avversario inesistente.
Corse verso la rete, simulò una volè di rovescio,
poi un drop-shot, una smorzata...La luna mozza ingialliva lentamente...Dal
bidone delle spazzature di quella calletta spenta e acre di
un'odore di orina uscì un gatto miagolando. L'appaluso
fu lungo, interminabile, oceanico. Alzò le braccia verso
i balconi chiusi, accosentì alla Gloria, vi accondiscese.
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V
...ma
allora era proprio vero, avevo ragione, borbottava tra sè
se`, passeggiando su e giù, avevo ragione (e io che non
ci credevo più), sono quello che che credevo da bambino.
E faceva le capriole si baciava le mani e rideva e rideva davanti
a quel mare brontolone e sterminato, incongruente. E se se se
ne accorgono, se lo vengono a sapere, voglio dire, e si grattava
la barba, sì se lo vengono a sapere, chissà cosa
mi fanno, chissà cosa si aspettano e mi fanno fare. Meglio
starsene zitti, mettersi le mani in tasca far finta di niente
mettersi a sedere e sbirciare quell'onda, quella lì che
cresce e cresce... Accavalliamo le gambe, ecco così,
composto composto...
©
Piero
Dal Bon
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